Abbiamo perso la magia della pubblicità

Oggi mi è capitato di ascoltare, grazie alle playlist completamente casuali di Alexa, “Take on me” degli a-ha, un classico che spero tutti quelli che stanno leggendo conosceranno.
Dal 1985 a oggi, infatti, sono certa che il brano in questione sia stato letteralmente abusato dalle emittenti radiofoniche e dalle pubblicità Io però, essendo nata agli inizi degli anni ‘90, ogni volta che sento il riff iniziale di sintetizzatore di Take on Me, ho immediatamente il flash che mi parte nella testa come quando la vedevo in tv, con tanto di loghi: la Volkswagen e gli Swatch.

Credo di non essere l’unica a ricordare lo spot della Volkswagen, meraviglioso, che utilizzava proprio “Take on me” e ne riprendeva lo stile del videoclip (qui c’è la pubblicità, per chi non la conoscesse). Sul perché io connetta invece la canzone agli Swatch è un grande mistero, in quanto non ho ritrovato lo spot in questione, ma sono abbastanza certa esistesse.

Fatto sta che si è innescato un treno di pensieri, mentre mi preparavo il caffè, riguardo l’importanza dell’associare a una pubblicità il giusto mood, la canzone adatta e arrivare all’effetto finale di qualsiasi strumento di marketing: lasciare un’emozione positiva allo spettatore, legata al marchio pubblicizzato.

Sarebbe impossibile, infatti, non immaginare Mcdonald’s (sempre rivolto a quelli che sono almeno maggiorenni) con la classica canzoncina “parappappapaaa” e, almeno per chi oggi ha a che fare con bollette e bolli auto, lo slogan “I’m lovin’ it”. Per chi è cresciuto negli anni ‘80 e ‘90, epoche d’oro del consumismo e del marketing aggressivo degli spot tv e radio, alcune marche di prodotti, così come oggetti specifici, vengono associati irrimediabilmente alle pubblicità che ce li facevano conoscere, ripetutamente, come intermezzi assillanti durante le pause da film e cartoni. Un esempio al volo? Le Panatine. “Cinque minuti, solo cinque ne avrai”, chi non se lo ricorda è fuori da quella demografica che ho descritto poco fa, o mente.

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Abbiamo perso la magia della pubblicità?

Su noi “Millennial”, ovvero quelli nati tra l’81 e il ‘96, la pubblicità non è stata un semplice strumento di marketing, ma una parte integrante della cultura popolare.
Socializzavamo perché ci piacevano le stesse merendine: chi le Camille, chi il Soldino (mi dispiace ragazzi, un abbraccio), chi le crostatine. Per noi erano quasi degli status symbol: possiamo fare un sondaggio per vedere oggi quanti di quelli che mangiavano le crostatine al cioccolato durante la ricreazione di scuola sono ingegneri e programmatori? Perché ho una teoria da verificare.

La bulimia d'immagini e gli status symbol

Con l’avanzare degli anni e l’aggiunta massiccia - anzi improponibile - dei mezzi attraverso cui la pubblicità ci arriva e prova a comunicarci qualcosa, abbiamo integrato spot e immagini nel nostro vissuto quasi come se fosse ossigeno.

Oggi non guardiamo più la nuova pubblicità della Nike (pazzesca) come quando guardavamo The Cage, sempre della Nike. Prima che mi diciate “seh vabbè”, se cercate su Youtube le parole “The Cage”, il primo risultato è eloquente. The Cage è l’equivalente per i ragazzini degli anni ‘90 del “Ambrogiooo” per quelli degli anni ‘80. A ognuno il suo: a voi i Ferrero Rocher, a noi Ronaldinho e Roberto Carlos.

Di fatto, l’eccessiva pubblicità ha fatto nascere il problema delle “bulimia d’immagini” e il successivo rigetto di qualsiasi tentativo di penetrare a fondo nella persona. In effetti io, a trent’anni, con un background di accademia e marketing, non trovo più utile la pubblicità fatta con i mezzi tradizionali: su di me non ha alcuna presa. Sicuramente sono diventata io più resistente, ma è pur vero che il pubblico è esposto quotidianamente a una quantità di slogan e immagini così elevata che non ha neanche senso stare qui a parlarne.

Oggi quindi le persone come me, o come qualsiasi altra figura del marketing, deve studiare tomi su tomi di strategie e concetti avanzati per offrire un servizio degno. Affidiamo le nostre speranze alla SEO e alle ricerche su Google, o al massimo speriamo che l’influencer che abbiamo scelto ci pompi il prodotto a tal punto da superare la soglia critica del pubblico e raggiungere l’obiettivo (strategia vecchia quanto il concetto di pubblicità, ma mai come oggi abusata), uno scenario a dir poco deprimente.

La soluzione? No, non la ho, non la so. Non c’è, forse. A fine caffè, di cui ho la tazza vuota accanto ora, ho realizzato che sono cresciuta io, è cambiato il mondo e sono cambiate troppe cose affinché la pubblicità possa avere lo stesso effetto di un tempo. Sicuramente perdere l’esclusività della TV ha aumentato la facilità con cui un’azienda può apparire sui canali di comunicazione, ma ha diminuito anche l’impegno profuso nel realizzare spot e l’attenzione che gli utenti rivolgono a suddetti video pubblicitari, fermandosi alla teoria accademica.

Comunque non è tutto perso: sono certa che, sebbene con risultati più scarsi, le pubblicità come quella del Cornetto di quest’estate (quella col tormentone di Sangiovanni, il tizio lascivo di Amici che canta “se mi tocchi il futuro lo fai in mille pezzi”) rimangono in testa, se non altro per il martellamento costante del mandarla in onda ogni venti secondi, ma non penso proprio che fra vent’anni qualcuno starà lì ad ascoltare Sangiovanni (chi?) e ricordarsi della pubblicità del Cornetto Algida del 2022. Poi magari mi sbaglio e non c’ho capito niente, però lasciatemi il dubbio.

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