Copywriting in Italia: il mondo ignorato

Lo sviluppo sempre più capillare e complesso del web ha fatto sì che, fra le nuove mansioni richieste dal web 2.0, si creasse anche un crescente bisogno di testi “mordenti”, in grado di conquistare clienti e potenziali tali a primo impatto e, in generale, rendere piacevole la fruizione dei siti da parte dei navigatori.

Abbiamo assistito a tante ere dove il “copywriting” era già un mestiere ma nessuno lo aveva capito: dopo la Net Bubble è iniziato il blogging, specialmente in Italia, che ha visto un crescendo spaventoso, facendo rendere conto i sociologi (o almeno, quelli più lungimiranti) della potenza sconvolgente del mezzo internet. Alcuni ipotizzavano che un giorno non ci saremmo più informati sul mondo da un quotidiano nazionale, ma bensì dai blog, da internet, da fonti “non ufficiali” come i blog più famosi del tempo.

L’abuso dei testi: un problema che non colpisce solo i singoli

Facendo un salto temporale ad oggi, nel 2022 il panorama sull’uso che si fa del web e dei testi è simile a quello di un film post-apocalittico: una specie di distopia in cui cerchiamo qualcosa sui motori di ricerca e dobbiamo saltare direttamente alla seconda pagina per trovare risultati non commerciali di quello che ci serve, consapevoli che la prima pagina è stata conquistata da gente che vuole solo venderci qualcosa.

Dei testi, in questi anni, se n'è fatto un abuso talmente grande che la scarsa qualità e l’unico obiettivo di “vendere” qualcosa sta riuscendo a intaccare persino i giganti dell’industria (come Google Search) creando nuove e incredibili correnti dove Reddit e altri social si sostituiscono in maniera improbabile allo Yahoo Answers de noantri, diventando a tutti gli effetti l’unione fra i quasi defunti forum di discussione e il modo più semplice per avere informazioni e opinioni apparentemente “pulite” e oneste su una questione.

Se all’estero finalmente qualcuno ha capito che per interrompere questa tendenza bisogna evitare di fare gli improvvisatori con i testi, in Italia ancora navighiamo in alto mare, anzi, come dice Venditti, in “alta marea”. Le nozioni basilari per la composizione dei testi di un buon sito, sia questo una landing page o un portale con una sitemap, appaiono e scompaiono, a seconda di chi assume il timone delle aziende.

In 11 anni nel settore marketing e copywriting temo di aver visto davvero troppo, in questa sorta di evoluzione a metà. Ho assistito alle grandi aziende che si accorgevano, lentamente e con i tempi tipici delle corporation, dell’importanza dei social e della brand voice. Ho visto siti di truffe e semi truffe diventare lo standard de facto con l’utilizzo di frasi d’apertura come “In 5 giorni ho risolto [inseriamo qui qualche problema pazzesco]”, “I dottori lo odiano per questa scoperta!” e simili, potendo gustarmi anche il momento in cui queste pratiche sono state catalogate come “black hat” e riconosciute come truffe, con conseguenti shadow ban da parte dei motori di ricerca.

Alla fine dei conti mi sento un po’ come Roy Batty in Blade Runner, con l’eccezione che per me non è tempo di morire, ma quello di utilizzare tutta la conoscenza che ho accumulato per evitare disastri comunicazionali alle aziende, cercando di evitare l’inevitabile alle porte di Tannhäuser.
Qual è però il problema che impedisce a me, così come alle persone estremamente qualificate, di cambiare l’impronta aziendale? C’è una risposta semplice?

Sì e no. In Italia ancora siamo al punto di pensare che chiunque sappia scrivere sia un copywriter, un ghostwriter, insomma qualsiasi cosa con dentro “writer”: tanto alla fine scrivi, apposto.
Così come da vent’anni ci lamentiamo che “tutti scrivono ma nessuno legge in Italia”, oggi potremmo dire che “tutti scrivono, ma nessuno studia per farlo”. Negli anni ho collaborato con team incredibilmente competenti e dove mi sono trovata magnificamente, mentre mi sono svegliata di soprassalto all’interno di gruppi disuniti di persone il cui unico lato positivo era il gigantesco e smisurato ego che si portavano dietro, che suscitava ilarità.
Tutte le esperienze vissute mi hanno fatto capire che proprio in Italia, così come anche all’estero seppur in maniera minore, nessuno ha capito davvero niente di cosa fa un copywriter, ma tutti sembrano aver intuito di averne bisogno, senza sapere perché.

Tu vuo’ fa’ ‘l copywriter

Ma sì nat’ in Italì.
Voler essere un copywriter dopo essere nati e cresciuti in Italia è un mestiere bastardo, senza genitori riconosciuti, che ogni tanto viene ascritto come marketing, altre come content creation, altre ancora come “schiavismo”. Fino a qualche anno fa c’era chi lo chiamava “telelavoro”: praticamente per certi scrivere testi era un po’ come essere venditori per corrispondenza.

Prendiamo ad esempio le piattaforme di content writing: con una selezione che accetta un po’ tutti quelli che riescono a mettere due parole in fila, gli articoli vengono commissionati a una platea eccezionalmente vasta, facendo l’effetto di un osso gettato in mezzo al fango e la conseguente lotta per accaparrarsi 300 parole a 3€ che diventa più squallida dei combattimenti illegali tra polli. Se all’estero persino questi servizi, che hanno contribuito al fallimento della prima pagina dei risultati di ricerca di cui parlavo prima, hanno un costo che rispecchia in parte la sempre maggiore capacità richiesta per ottimizzare i testi seguendo delle linee guida, in Italia ancora affidiamo queste mansioni al primo che arriva, a patto mandi una “prova” dove vengono valutate le sue qualità di scrittura, senza ulteriori classificazioni, senza domande. Col risultato che poi qualcun altro dovrà mettere mano ai testi e revisionarli da zero, con doppia spesa e doppia perdita di tempo.

Così arriviamo al punto essenziale: come si fa il copywriter in Italia? Perché farlo, poi? Se la tua risposta non è scrivere fregnacce e buttarci dentro parole chiave tanto per uscirsene bene sui motori di ricerca, allora già siamo sulla buona strada.

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Photo by Etienne Girardet on Unsplash

Domandati prima: hai la certezza di poter fare il/la copywriter?

Che poi è la domanda più importante. Sapevo già molto bene a 18 anni che non avrei mai potuto fare l’ingegnere aerospaziale, perché a me piaceva guardare le stelline e invece loro amano contarle e catalogarle, analizzarle, farci sopra calcoli che sembrano usciti da una puntata di qualche serie tv.
Il copywriting non significa solo saper scrivere bene: bisogna saper creare, ideare, essere visionari. Osservazione che ci porta direttamente al secondo punto: in Italia le mansioni creative sono trattate un po’ come il pagare le bollette, un male necessario e che prima sparisce meglio è. Il copywriter è una persona che sì, crea testi, ma lo fa con un obiettivo, un modo di porsi specifico, una serie di scelte stilistiche che rispecchino ciò che sta scrivendo: insomma, fa parte del team di creativi, non è tipo la zavorra per tenere bassa la mongolfiera.

Così come succede anche per il Social Media Management, si pensa che “tanto che ci vuole”, relegando il successo o meno di una cosa al caso, senza analisi, senza report, senza confrontarsi su quali sono i “punti deboli” di una strategia e i rischi di fallimento. Essere copywriter e professionisti seri richiede invece un’attenzione assolutamente non comune, specialmente sotto il piano dell’analisi.

Quindi se sai solo scrivere, non sei un possibile copywriter.

Sapevi che ormai esistono dei robot che, ciucciandosi migliaia di testi presenti online, hanno imparato a fare quella specie di taglia e cuci che vedi nei testi “economici”? I robot hanno anche meno pretese: non vogliono neanche essere pagati.

Sai tirare fuori almeno 3-4 testi basandoti soltanto su un logo o un’immagine? Allora hai qualche speranza.

Davvero, tu sei una specie di estensione dei grafici. Loro fanno i disegnini e tu scrivi le paroline magiche. Non sei né uno scrittore di successo, né un genio del marketing (o almeno non ti è richiesto): sei il creativo che invece di lavorare su Photoshop lavora su un programma di scrittura qualsiasi e mette per iscritto l’impossibile.
Ancora non basta, però.

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Ti fa schifo l’idea di studiare tutta la vita?

Allora abbandona adesso, fuggi, scappa in Messico (bello il Messico).
Essere copywriter non richiede solo tanta motivazione per fare quello che fai e “abbozzare” quando quello che chiede il cliente non ti piacerà, ma richiede che tu sia costantemente a contatto con lo studio. Dovrai diventare una specie di saggio che sa tutto, che vede tutto, che può parlare di tutto, che si aggiorna su qualsiasi argomento. Fai così: mettiti a parlare con qualcuno che fa il copywriter. Scoprirai cose incredibili su argomenti di cui non t’è mai fregato niente e probabilmente ti piacerà.
Un copywriter deve sempre migliorare, anche quando è al top, quando ha raggiunto (o pensa di aver raggiunto) il suo “peak”. Per questo la maggior parte molla, dopo aver fatto la gavetta all’infinito.

Dovrai inoltre fare tutto questo con uno Stato che non sa neanche di preciso cosa fai, con clienti che scaricheranno su di te le frustrazioni dei loro progetti che falliscono e, talvolta, persino vere e proprie aggressioni verbali nate da un loro problema personale. In effetti il copywriter è la cosa più vicina ai poeti bohémienne che mi venga in mente: una vita che oscilla continuamente, come un pendolo, fra l’impazzire e sentirti in cima al mondo. Occorre avere davvero molto self-control e rimanere concentrati sull’obiettivo.

Quindi, insomma, perché lo faccio?

Un’ottima domanda, la cui risposta non è per nulla scontata. Il modo migliore per rispondere è prendendo per esempio una dinamica di una famosa serie tv dove un’intelligenza artificiale invia ai protagonisti degli episodi un “numero”, una persona che in qualche modo è importante al mondo, forse in negativo o forse in positivo. Quando si accettano clienti nessuno può sapere quanto questo rimarrà con noi e come evolveranno i suoi progetti: dietro una semplice, breve, commissione potrebbe esserci la nascita di un duraturo progetto di collaborazione.

Essere copywriter è ingrato, è vero, ma sarebbe inutile negare che l’entrare costantemente in contatto con persone e idee abbozzate, da concretizzare, non significhi essere a tutti gli effetti una sorta di “game changer”.
Una delle storie più “romantiche” che posso raccontare, è di questo cliente che dal semplice scrivere alcuni testi da integrare per il suo libro, mi propose all’improvviso l’idea di aprire una casa editrice. Casualità vuole che io avessi seguito in precedenza il settore per anni, con schifo malcelato e le cose sono fluite naturalmente: lui mi disse che voleva fare qualcosa di diverso, più meritocratico, qualcosa che premiasse le persone con passione.

Accettando la proposta, a distanza di quasi due anni, abbiamo costruito una comunicazione efficace, apprezzata, la casa editrice è un gruppo editoriale e c’è poco da dire: la soddisfazione di partecipare da zero a un progetto e vederlo crescere così, con successi di ogni tipo, ha un grande impatto morale: in questi casi ci si rende conto dell’essenzialità del saper comunicare bene, il compito vero di un copywriter.
Quindi sì, certo, potete “fare” i copy e occuparvi degli articoletti, ma “essere” copywriter è tutt’altra storia, tutt’altra vita e, come ho già detto, un’esistenza da bohemienne sfigati che campano di laudano e assenzio.

Botto finale: come si forma il copywriter?

Spesso i clienti mi chiedono “qual è la tua formazione?” e mi domando sempre cosa si aspettino in risposta. Il fatto è che non esiste laurea per i copywriter, non c’è nulla che possa garantire la mia bravura nello scrivere testi per il web, se non la prova tangibile.
Esistono corsi, certo, ci sono professionisti che fanno webinar e quant’altro, ma si può essere copywriter in concomitanza con moltissime altre occupazioni: marketer, SEO specialist, contabili, ingegneri… l’ideale è che di base ci sia una formazione specialistica, su cui creare testi altrettanto specializzati. Idealmente, infatti, dovrai e vorrai crearti una nicchia, per fare leva sulle tue conoscenze e creare contenuti tecnici di alta qualità.

Il copywriter ideale è formato su marketing digitale (e accenni di neuromarketing e neurolinguistica), psicologia pubblicitaria, SEO e SEM e possibilmente almeno un argomento prescelto su cui basarsi. Completano il profilo (come piace tanto scrivere ai recruiter) una laurea in scienze della comunicazione o materia umanistica, così come studi e conoscenze di redazione editoriale, ma talvolta è apprezzato anche avere lauree accademiche e specializzazioni in settori artistici, specie per gli studi fotografici e cinematografici.

Ovviamente, una volta che ci si è convinti di essere veramente abbastanza resilienti da poter sopportare un lavoro così bistrattato, ma che per essere svolto al meglio richiede conoscenze in mille campi, allora c’è l’ultimo grande blocco di sale da inghiottire: cercare lavoro.
La ricerca del lavoro è una specie di commissione ricorrente, dove il cliente sei tu. Cerchi, mandi candidature, mandi curriculum, mandi richieste, ti iscrivi a mille piattaforme, fai 100 call, ne accetti due e forse, a quel punto, allora lavori.
Hai un sito? Allora lo sistemi, lo ottimizzi, crei contenuti, rispondi ai commenti, crei un network e lo “coccoli”.
Con il tempo le piattaforme magari diventano 10, le call 3 e il lavoro, alla fine, uno. Magari a lungo termine. Il sito invece che richiederti 3 ore al giorno te ne chiederà 1, ma tutto dipende da cosa ti piace e di che morte vuoi morire.

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Conclusioni agrodolci

Se non è stato chiaro finora, allora diciamolo apertamente: essere copywriter è una durissima sfida aggiunta a quella del nomadismo digitale. Se già girovagare il mondo svolgendo mansioni in remoto è impensabile per un sistema che prevede il lavoro come routine giornaliera e ripetizione asfissiante, il ruolo di copywriter aggiunge quel sapore di cianuro al cocktail ribelle del vivere una vita fuori dai sistemi.

A riguardo mi torna sempre in mente quel giorno dove un impiegato di un famosissimo franchising bancario mi ha chiamata e, con imbarazzo, mi ha chiesto da dove venissero le mie entrate. Quando risposi “sono copywriter” ci fu uno di quei silenzi imbarazzanti che non sopportava John Travolta in Pulp Fiction: mi disse, molto in difficoltà, che non sapeva cosa fosse, se potevo passare in filiale ad “aggiornare il mio profilo bancario”. Non passai.

Davvero, allora io ti chiedo, a te che ancora vuoi fare il copywriter e sei, o vuoi essere pure nomade digitale: sei davvero in grado di sopportare tutto questo?
Se la risposta è sì, allora stringimi la mano perché hai il mio rispetto, collega.

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