Farsi prendere la mano dalla monetizzazione significa fallire

Gli algoritmi hanno mostrato il loro limite di monetizzazione.

Ma i capitalisti sono persone stupide e non lo vedono.
Tolto questo assioma fondamentale di mezzo, cerchiamo di spiegarlo.

Il mondo dei servizi online, dai social media che per un motivo o per un altro hanno finito per occupare uno spazio (eccessivo) nella vita di milioni di persone, al più semplice servizio di ricerca articoli all'interno di un quotidiano, si è colorato di moltissime sfumature tecnologiche, figlie di un periodo dove sia le persone comuni che persino alcuni dei più esperti ignoravano completamente il funzionamento del web e anche di un computer.

Il web 2.0 e l'introduzione del concetto di "algoritmo"

Fino al web 1.0, le pagine erano definite "statiche". Ovvero l'interazione da parte dell'utente era minima, si trattava di una consultazione passiva di un mucchio di pixel che riportavano informazioni o, nel migliore dei casi, immagini. Non esisteva la creazione di post in maniera dinamica, i commenti erano un sistema ancora davvero poco utilizzato e, per la maggior parte, le conversazioni avvenivano tramite sistemi di messaggistica come le Bulletin Board e, negli anni '90, i primi accenni di messaggistica istantanea.

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I primi social come li conosciamo oggi li dobbiamo agli inizi del 2000 e, in parte, alla Dot-com Bubble. L'economia e il capitalismo, per quanto siano visti come il male del millennio (e lo sono, nella loro forma attuale più che in altre), sono stati il motore trainante per l'evoluzione tecnologica degli ultimi trent'anni. Come mi disse tempo fa mia nonna, "pure un orologio rotto segna l'ora giusta due volte al giorno". Ma non divaghiamo.

L'algoritmo ci ha insegnato ad apprezzare una sorta di "ordine" nei nostri social. Ci venivano suggeriti, inizialmente, profili che corrispondevano ai nostri interessi, funzione che - nuovamente, in maniera davvero poco inaspettata - derivava dai siti d'incontri, i quali usavano questo sistema per creare un "match" tramite il profiling dei singoli membri. Dalle persone suggerite si è poi però passato alle pagine, che ancora in seguito sono diventati "post che potrebbero interessarti". L'avvento del web marketing purtroppo ha trasformato quella che era una funzione davvero utile, ovvero la costruzione di un'identità online per trovare altre persone con interessi e gusti ben precisi, in una specie di centro commerciale all'inverso, dove noi siamo la merce e le aziende vagano riempiendo il carrello di profili appetibili.

Potete rivendervi tranquillamente questa definizione, mandatemi dei fiori se lo fate.

L'ironia dell'eccesso di capitalismo

In un twist di eventi davvero poco sorprendente, la maggior parte dei social mainstream è diventata un gigantesco cartellone pubblicitario. Ogni 2-3 post normali ne appare uno "sponsorizzato", oppure si crea il solito blocchetto con l'ad piazzato al centro dello schermo, di PC o smartphone o tablet che sia. Le pubblicità prima e dopo i video sono diventate solo una di cinque secondi, poi due di 5 secondi, poi due di trenta secondi e così via. Questo processo l'abbiamo visto succedere così tanto e così a lungo che gli abbiamo dato anche un nome: Advertising clutter, o Ad Clutter, che come sempre non ha una traduzione in italiano perché usare i termini inglesi ci rende sempre cool e trendy. Ma anche perché rimaniamo sempre dei provincialotti nel cuore.

L'ad clutter è diventato un problema inizialmente al di fuori di internet: riviste, TV, cartelloni pubblicitari statici e dinamici sulle strade, sui grattacieli, nelle metropolitane. Gli anni '90 hanno costruito una visione al neon di quella che potremmo definire una sorta di "mitizzazione del capitalismo eccessivo". Il cyberpunk è nato e morto sotto l'egida del far vedere scenari notturni cittadini dove le pubblicità non erano soltanto il "faro" che con le sue lampade a incandescenza prima e i tubi pieni di fluidi reattivi dopo (negli anni '90 non sapevano ancora che cosa fossero i LED) creavano un'estetica da cui, ironicamente, alcuni governi invece che stare lontani hanno piuttosto preso ispirazione per le proprie strade, vedasi Hong Kong, Shangai, New York, Sidney e molte altre, che sembrano seguire da decenni il trend cluttercore.

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Photo by Joe Yates on Unsplash

In pratica l'ad clutter è un fenomeno quasi naturale del provare a fare troppi soldi con qualcosa che non offre abbastanza possibilità economiche. Lentamente, ma inesorabilmente, l'ad clutter ha raggiunto il web e qualcuno, più di una decina di anni fa, ha iniziato a notare come blog e siti fossero pieni fino alla comicità di banner e pubblicità, decidendo di shadowbannare (shadow + ban, ovvero escludere in maniera invisibile) dai risultati Google i siti "mirror" dove i pop-up e i redirect di affiliate marketing erano l'apice del contenuto.

Oggi molti "neofiti" della comunicazione, specialmente i giovani advertiser, stanno avendo a che fare con il pubblico che urla alla "enshittification", che per chi (come me, ma che in generale ha studiato il passato) ha vissuto negli anni delle billboard statunitensi giganti appoggiate alla meno peggio sui grattacieli di Milano, è un'evoluzione naturale dell'eccesso di capitalismo.

Un veloce excursus sull'enshittification

I social media, come altre piattaforme digitali, spesso cercano di massimizzare i profitti attraverso strategie di monetizzazione aggressive. Questo però, esattamente come l'ad clutter, finisce per avere conseguenze negative su chi è dall' "altra" parte.

Una lista veloce di questi processi: presenza di annunci pubblicitari invasivi, che diventano un ostacolo da evitare con ad-block o con l' "attention skipping", che è un po' come vivere i social attraverso un costante coito interrotto, ma anche con contenuti promozionali e sensazionalistici. Alzi la mano (o qualsiasi altro arto, davvero) a chi non ne può più delle thumbnail "shockanti" di Youtube. Ma non è finita qui.

I contenuti "provocatori", ad esempio, ci hanno rotto le palle, punto. Non ne possiamo più di "shock" e "rivelazione", e tantomeno "scandalo" usati a sproposito ovunque. La qualità dei contenuti online, da quando si è scoperto che il clickbait è un buon modo per abusare degli algoritmi, si è abbassata universalmente.
L'esperienza dell'utente medio di un social è diventata (e continua ad essere) superficiale e priva di sostanza, poiché il servizio cerca di accontentare la fame insaziabile di clic e visualizzazioni degli algoritmi, resi ormai un inutile servizio per l'utente, a disposizione solo degli utili a fine mese.

A questo poi vanno aggiunte le altre variabili: i "numeretti", ovvero le metriche di coinvolgimento, quando si abbassano fanno male sia a chi crea contenuti che a chi li fruisce. Ricordate gli youtuber che di punto in bianco erano scomparsi dalle home dei propri follower? Non abbastanza cliccati, poco appetibili per i pubblicitari. Quindi eccoci lì, a manipolare le metriche, ad essere prostitute e prostituti del clickbait, anche se il nostro contenuto poi merita davvero.
Interazioni superficiali, abbassamenti progressivi e costanti di qualità, oltre a una massiccia overdose di pubblicità lasciano alla fine della giornata una sola domanda: ma chi cazzo ce lo fa fare?

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Una valutazione riassuntiva

Per quanto ai miei colleghi di LinkedIn e dei webinar gratuiti (...un grande capitolo da aprire qui) non piaccia la realtà, il momento di essere meno delle macchinette sforna slogan e più individui attenti a creare contenuti coinvolgenti senza sottostare agli algoritmi, è già giunto ed è stato inevitabile.

Non perché sia "moralmente giusto", ma perché i social mainstream stanno fallendo. L'idea di tornare alla decentralizzazione e a piccole comunità che comunicano fra loro, piuttosto che avere un gigantesco posto che non piace a nessuno alla fine dei conti, se non alle aziende che fanno pubblicità, attrae sempre più persone.

Così come è per il discorso sui contenuti creati dalle AI e il panico scatenato dal "ci sostituiranno": miglioriamo ciò che ci circonda. Aumentiamo i motivi per scegliere un professionista piuttosto che un programma che tira fuori testi demotivazionali e privi di qualsivoglia aspetto interessante. Per chi si "accontenta" c'è sempre l'oblio, il disinteresse e in ultima battuta l'inevitabile fallimento.

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