I giochi moderni: stupidamente facili, o dolorosamente impossibili

Da qualche settimana ho cominciato a giocare a Crash Bandicoot 4: It's About Time, uno dei tanti prodotti di quell'ondata di nostalgia retrò che ormai ha invaso qualsiasi forma di intrattenimento: dai videogiochi, alla musica, ai film, alla moda, al makeup, senza ovviamente tralasciare arredamento, fumetti e pressoché ogni altro prodotto vendibile facendo leva sul sentimento di nostalgia.

Per rendere questo articolo comprensibile a tutti, però, devo fare una lunga premessa, ma vi assicuro che un po' come nei thriller di una volta, alla fine scoprirete l'assassino molto prima della fine del libro. Qui niente assassino, ma piuttosto la domanda: perché abbiamo bisogno di tutta questa nostalgia, se non riusciamo a ricreare le esperienze di un tempo?

"Mi piaceva com'eri prima"

Per spiegare la difficoltà dei videogiochi di oggi dobbiamo partire da molto prima, dal concetto di "nostalgia". Senza srotolare pipponi giganteschi da linguisti improvvisati su un blog, è una parola che al suo interno contiene il significato di "ritorno" e "algia", un elemento compositivo.
La cosa divertente delle parole che hanno "algia" all'interno è che denotano, tutte o quasi, un dolore. Nevralgia, sciatalgia, mialgia... quindi, in pratica, "nostalgia" sta per "dolore del ritorno". Già nella parola, quindi, c'è quella "red flag" (per tornare subito un po' più international) che dovrebbe farci pensare attentamente al tipo di emozione provata. Noi siamo naturalmente attratti dal... dolore del ricordare? Ottimo. Andiamo avanti.

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Le "operazioni nostalgia" sono iniziate già moltissimi anni fa.
Il concetto di "bei tempi andati" dopotutto lo hanno avuto quasi tutte le generazioni: chi rimpiangeva la PS1, chi il telefono coi fili, chi il telegrafo, chi i Pony Express, chi la peste bubbonica per vendere mascherine antipeste... in generale, è difficile capire perché, quando, come e dove la nostalgia si possa insediare, ma di base tutti siamo nostalgici di questa o quella cosa passata della nostra vita, che nel frattempo è progredita in meglio o in peggio, ma che in ogni caso non ci permette più di vivere quel momento di cui stiamo sentendo il sapore dolciastro della mancanza.

Questo sentimento era una realtà già anni fa, ma con l'avvento della generazione Millennials (detta anche Gen Y, sociologicamente) e la progressiva e inesorabile novità del mondo digitale, il lamento generazionale di ciò che andava perduto, venendo sostituito (come in tutte le generazioni) da qualcos'altro si è fatto più potente e, soprattutto, è stato imbracciato come una mitragliatrice pesante da guerra da chi fa marketing come dei Rambo da social.
Il risultato di tutto questo è che oggi sguazziamo in una poltiglia che è a metà fra la migliore delle distopie di K. Dick e un generale commistione di amori generazionali riscoperti e/o riassemblati sapientemente per svolgere il proprio lavoro come "marchetta" per prodotti.

Momento esempio: i bambini nati negli anni '90, che oggi non hanno realizzato ancora di avere trent'anni, mangiavano il "Twister", una specie di abominio fatto di cartapesta e coloranti che sapeva più o meno di tutto ciò che una bottiglia di acido muriatico contiene, senza causare l'irritazione di suddetta bottiglia. O almeno, raramente, ecco.
Questo particolare prodotto che ignorava qualsiasi regola di produzione etica, era in realtà molto in voga con i bambini degli anni '80, arrivando a quelli degli anni '90 unicamente grazie a un mix di assenza totale di regolamentazione del mercato, colori sgargianti creati con un mix di scorie radioattive e, in ultima battuta, il ricambio generazionale dei prodotti molto più lento rispetto ad oggi.

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Nonostante questo, è estremamente probabile che i bambini nati fino al 1996 (ovvero, appunto, la "tarda" Gen Y) abbiano nostalgia di questa roba che invece risale al 1982, un anno dopo l'inizio della Gen Y.
Purtroppo il concetto di "generazione" sociologica è andato perdendosi negli ultimi anni per via della cultura meme eccessiva, ma non esistono casualmente. Le persone tra il 1981 e il 1994 hanno esperienze di vita molto simili che li dividono, ovviamente con tutte le considerazioni del caso. Questo si traduce in una fetta di marketing estremamente ampia per gli addetti ai lavori: gli italiani dai 41 anni fino a coloro che devono ancora compierne 30, hanno una reazione di qualche tipo al vedere nella lista gelati il "Super Twister", che oggi non sembra il prodotto di scarto di una fissione nucleare, ma un normale gelato alla frutta esteticamente accattivante.
Perché non creare semplicemente un nuovo gelato e giocare sulla nostalgia del "Twister", però? Perché è un prodotto già piazzato, in un certo senso, sul mercato. Non è soltanto una questione di nostalgia, ma utilizzare un brand durato quasi vent'anni come il Twister permette di saltare molte fasi della costruzione di brand identity, potendo allacciarsi all'arma più potente del marketing: la risonanza individuale.

Così oggi abbiamo le trasposizioni di vecchi fumetti in film, i "reboot", i "remake", i trend della moda anni '90 e '00, gli stili di arredamento che andavano quarant'anni fa e anzi iniziamo ad avere persino i re-remake, i re-reboot e via dicendo. Perché il marketing è tanto più potente quanto più può risuonare individualmente con la persona a un livello intimo. Il "virtue signaling", le "operazioni nostalgia", il "branding"... sono tutti modi per creare un collegamento fra il prodotto/azienda e il cliente, o potenziale tale.

Non ti sto vendendo un prodotto, voglio dirti perché lo comprerai

Paul Watzlawick, della scuola di Palo Alto, è stato un sociologo di un'importanza pressoché fondamentale. Il suo "è impossibile non comunicare" ha la stessa valenza sociale del "so di non sapere" filosofico. Questo perché essenzialmente il marketing non è uno strumento per vendere qualcosa, ma è letteralmente piegare la comunicazione a un fine, che può poi corrispondere o meno alla vendita di qualcosa.

La necessità dei marketer e degli addetti ai lavori di connettersi "intimamente" con le persone è una risposta organica, fatta di carne e nervi, allo stimolo umano di socializzare. L'unico modo per fidelizzare un cliente è creare un legame, in qualche modo, che si mantenga anche dopo il primo acquisto e fino al prossimo.
Se una volta l'obiettivo era creare il desiderio di scegliere un prodotto rispetto a un altro con proclami fantasiosi e spot onestamente geniali (se avete più di 25 anni sono certa vi ricordiate "The Cage" di Nike, con i calciatori che facevano trick nella gabbia di metallo), oggi il mezzo per arrivare a vendere qualcosa è ricordarti cosa e perché ti è piaciuto tornando a fartelo desiderare, senza venderti nulla: ti comunico solo perché lo comprerai. In pratica un gaslighting su larga scala.

Ok ma puoi parlare di GIOCHI, ORA?

L'ho fatto.
Ho appena spiegato perché esiste Crash Bandicoot 4, perché abbiamo i remake di giochi usciti appena 20 anni fa, o perché siamo arrivati a Final Fantasy XVI nonostante il gioco ormai non abbia più nulla della serie a cui fa capo.

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Con questo assioma spieghiamo anche perché alcuni giochi sono dolorosamente facili e altri invece frustranti, impossibili e apparentemente non divertenti.
L'operazione nostalgia, infatti, può funzionare in due modi: o ti propongo il prodotto così come te lo ricordi, ma con alcune migliorie per "rinfrescarlo", magari cambiando l'incarto del gelato (hint: la grafica) e il prezzo (hint: il prezzo), oppure ti propongo un prodotto molto simile a quello che ti ricordi, ma mettendoci la targhetta "2.0" accanto.
Il paragone in assoluto più chiaro è quello con la serie Pokémon, che non riuscendo a mantenere i giocatori di lunga data (che spesso non portano soldi), rimescolano la formula per piacere sì ai nuovi giocatori, ma anche per dare a quelli di lunga data il "contentino". Quindi che si fa? Si abbassa la difficoltà, si rende il gioco meno creativo e si crea un mondo per i più giovani, rendendo il gioco così accessibile che anche il cinquantenne pigro e svogliato dell'accendere il dispositivo può giocare insieme al figlioletto, grazie all'effetto "nostalgia" del brand Pokémon.

Piccola digressione: a riguardo della semplificazione come mezzo per vendere un videogioco ai vecchi/adulti pigri e non, come si vuole far credere, ai "bambini piccoli", vi rimando a questo video: notate come le soluzioni del ragazzo per assicurarsi che la madre arrivi alla fine del gioco sono le stesse critiche mosse ai giochi recenti. Percorsi prefatti, zero difficoltà, sequenze forzate e content "confusionario" rimosso.

L'altro lato di questa brutta medaglia è, invece, rendere il gioco "challenging". Ovvero, i bambini che hanno giocato a Crash Bandicoot da piccoli lo ricordano come un gioco difficile, ma dopo 20 anni di gaming lo considererebbero ancora difficile? Non importa la risposta: l'obiettivo è tenere incollati allo schermo, quindi ecco che il prodotto finale è un gioco mediamente facile da finire, ma pressoché impossibile da "completare", così da soddisfare sia i casual gamer che vogliono soltanto un altro gioco di Crash Bandicoot e i fan "die hard" con vent'anni di esperienza alle spalle, pronti a spendere 30 ore solo per fare un livello con tutte le gemme e completo di reliquia del time trial.

Nonostante queste strategie cerchiobottiste, però, che aiutano nel reparto marketing, il prodotto finale non sarà altro che una slavata scopiazzatura del materiale originale. Così Crash Bandicoot 4 sembra un "fan game" e non un nuovo capitolo della saga, il reboot di Bomberman sembra l'incubo di un bambino fatto videogioco e non parleremo di franchising come Duke Nukem o Sonic perché questo blog deve essere PG-13 per quanto possibile, quindi dovrei evitare il turpiloquio.

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Ovviamente, sia chiaro, esistono remake e reboot che mantengono fede al materiale originale. Posso fare l'esempio di Tomb Raider o di Doom, tuttavia questi prodotti sono spesso basati su franchising "a colpo sicuro", che vengono curati semplicemente perché sono un successo assicurato. Anche in questi giochi, però, c'è l'esperienza cerchiobottista e, per quanto chi c'è dietro si sforzi di ricreare il feeling originale dei videogiochi che vogliono imitare, finiranno sempre e comunque per far dire al presupposto target di riferimento la fatidica frase:

"Certo non è come quando ci giocavo da piccolǝ..."

Lacrime. Sipario.